domenica 4 ottobre 2009

J.P. SARTRE – La Nausea

  • [...] non voglio segreti, né stati d'animo, né dell'indicibile: non sono né vergine né prete per giocare alla vita interiore.

  • Sono le tre. Le tre è sempre troppo tardi o troppo presto per quello che si vuol fare. È la più stramba ora del pomeriggio. Oggi è intollerabile.

  • Rimango seduto, con le braccia penzoloni, oppure traccio qualche parola senza persuasione, sbadiglio, attendo che scenda la sera.

  • Insomma, mi ero immaginato che in certi momenti la mia vita avrebbe potuto assumere un'essenza rara e preziosa.

  • Ho saputo d'improvviso, senza ragione apparente, d'aver mentito a me stesso per dieci anni.

  • Ma bisogna scegliere: o vivere o raccontare. Per esempio quando ero ad Amburgo con quell'Erna di cui non mi fidavo e che aveva paura di me, menavo un'esistenza strana. Ma c'ero dentro, e non ci pensavo. Poi, una sera, in un piccolo caffè di San Pauli, ella mi lasciò per andare al lavabo, ed io rimasi solo. C'era un fonografo che suonava Blue Sky. Mi misi a raccontarmi quello ch'era avvenuto al mio sbarco. Mi dissi: “La terza sera, mentre entravo in un dancing chiamato la Grotta Azzurra, ho notato un pezzo di donna mezzo ubriaca. E quella donna è quella che attendo in questo momento, mentre ascolto Blue Sky, e che sta per tornare a sedersi alla mia destra e circondarmi il collo con le sue braccia”. Allora ho sentito acutamente che avevo un'avventura. Ma Erna è tornata, mi si è seduta accanto, m'ha circondato il collo con le braccia ed io l'ho detestata, senza saper bene il perché. Lo capisco ora: bisognava ricominciare a vivere e l'impressione dell'avventura era svanita.

    Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto. Non vi è mai un inizio. I giorni si aggiungono ai giorni, senza capo né coda, è un'addizione interminabile e monotona.

  • [...] gli avvenimenti si verificano in un senso e noi li raccontiamo in senso inverso.

  • Avrei voluto che i momenti della mia vita si susseguissero e s'ordinassero come quelli d'una vita che si rievoca. Sarebbe come tentar d'acchiappare il tempo per la coda.

  • Sono rimasto per un momento appoggiato contro il cancello, e poi, bruscamente, ho capito ch'era domenica. Era là, sugli alberi, sui prati, come un leggero sorriso.

  • La luce s'addolcisce. In quell'ora instabile qualcosa annunciava la sera. Questa domenica aveva già un passato.

  • Niente è cambiato, e tuttavia tutto esiste in un'altra maniera. Non posso descriverlo, è come la Nausea e tuttavia è esattamente l'opposto: finalmente mi capitava un'avventura e se m'interrogo vedo che mi capita e che sono io che sono qui; sono io che fendo la notte, sono felice come un eroe di romanzo.

  • Non ho fretta di rimettermi in cammino. Mi sembra d'aver toccato la vetta della mia felicità.

  • Ciò che mi fa disgusto, in fondo, è d'esser stato sublime, ieri sera.

  • Anny sapeva trarre dal tempo tutto quanto era possibile. All'epoca in cui lei era a Gibuti e io ad Aden, quando andavo a trovarla per ventiquattr'ore, lei s'ingegnava di moltiplicare i malintesi tra noi, fino a che non restavano più che sessanta minuti alla mia partenza; sessanta minuti, giusto il tempo che ci vuole per sentir passare i secondi uno ad uno. Mi ricordo una di queste terribili serate. Dovevo partire a mezzanotte. Eravamo andati al cinema all'aperto; eravamo disperati, lei quanto me. Soltanto che era lei che dirigeva il giuoco. Alle undici, all'inizio del film lei mi prese la mano e me la serrò tra le sue senza una parola. Mi sentii invadere da una gioia acre e compresi, senza aver bisogno di guardare l'orologio, che erano le undici. A partire da quell'istante cominciammo a sentir scorrere i minuti. Quella volta ci lasciammo per tre mesi. Ad un certo punto si proiettò sullo schermo un'immagine tutta bianca, l'oscurità si addolcì e vidi che Anny piangeva.

  • In una nuvola ho ritrovato un suo sorriso, ho indovinato i suoi occhi, la sua testa inclinata [...]

  • Sorrideva. Prima ho perduto il ricordo dei suoi occhi, poi quello del suo lungo corpo. Ho ritenuto quanto più a lungo ho potuto il suo sorriso, e poi, tre anni fa, ho perduto anche quello. Or ora, bruscamente, [...] mi è tornato; m'è parso di vedere Anny che sorrideva. Cerco di ricordarmelo ancora; ho bisogno di sentire tutta la tenerezza che ella mi ispira – è qui, questa tenerezza, vicinissima, non chiede che di nascere. Ma il sorriso non ritorna: è finito. Resto vuoto e secco.

  • Fintanto che ci siamo amati non abbiamo permesso che il più infimo dei nostri istanti, la nostra più piccola pena si distaccasse da noi e restasse indietro. I suoni, gli odori, le sfumature della luce, perfino i pensieri che non si dicevano, tutto, portavamo con noi e restava viva: non avevamo mai cessato di gioirne e di soffrirne al presente. Non un ricordo; un amore implacabile e torrido, senza ombre, senza scampo, senza rifugio. È per questo che ci siamo separati: non avevamo più forza per sopportare tutto questo fardello. E poi, quando Anny mi ha lasciato, di colpo, in un solo blocco, i tre anni sono sprofondati nel passato. Non ho nemmeno sofferto, mi sono sentito vuoto.

  • Il passato è un lusso da proprietari.

    Ed io dove potrei conservare il mio? Non ci si può mettere il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo. Io non possiedo che il mio corpo; un uomo completamente solo, col suo corpo soltanto, non può fermare i ricordi, gli passano attraverso.

  • Io non so approfittare dell'occasione: vado a caso, vuoto e calmo, sotto un cielo inutilizzato.

  • Non bisogna aver paura.

  • Cercavo intorno un appoggio solido, una difesa contro i miei pensieri. Non c'era niente; a poco a poco la nebbia si era aperta, ma qualcosa di inquietante continuava a trascinarsi nella strada.

  • Immagino sia per pigrizia che il mondo si rassomiglia tutti i giorni. Oggi aveva l'aria di voler cambiare. E allora tutto, tutto poteva succedere.

  • In regola con Dio e con la coscienza quel giorno come tutti gli altri, erano scivolati dolcemente nella morte per andare a reclamare la parte di vita eterna alla quale avevano diritto.

    Poiché loro avevano avuto diritto a tutto: alla vita, al lavoro, alla ricchezza, al comando, al rispetto e, infine, alla immortalità.

  • Non doveva essersi mai detto che era felice, e quando si permetteva un piacere, doveva abbandonarvisi con moderazione, dicendo: “Mi riposo”. Così anche il piacere, passando anch'esso nella categoria dei diritti, perdeva la sua aggressiva futilità.

  • Giunto al tramonto della vita, profondeva su tutti un'indulgente bontà.

  • Lui non esigeva niente: a quell'età non si hanno più desideri. Niente, salvo che si abbassasse un poco la voce quando lui entrava; salvo che, al suo passaggio, ci fosse, negli sguardi e nei sorrisi, una sfumatura di tenerezza e di rispetto; niente, salvo che la nuora dicesse a volte: “Papà è straordinario; è più giovane di tutti noi”; salvo di essere il solo che riusciva a calmare i capricci del nipotino mettendogli le mani sul capo, e di poter dire, dopo: “questi grandi dolori solo il nonno sa come consolarli”; niente, salvo che il figlio, diverse volte l'anno, andasse a chiedergli consiglio su questioni delicate; nient'altro, infine, che di sentirsi sereno, tranquillo, infinitamente buono.

  • Il maestro trattava da uomini fatti quegli studenti che non erano ancora molto lontani dalle loro prime sigarette: offriva sigari.

  • Ti comprendo, t'ho compreso fin dal primo giorno.

  • -In quanto a te, Teresa, non ti ringrazio: hai fatto solo il tuo dovere-. Quando un uomo arriva a tanto bisogna fargli tanto di cappello.

  • “Come posso sperare di salvare il passato di un altro, io che non ho avuto la forza di trattenere il mio?”

  • Ho gettato attorno uno sguardo ansioso: presente, nient'altro che presente. [...] La vera natura del presente si svelava: era ciò che esiste, e tutto quello non avevo presente, non esisteva. Il passato non esisteva. Affatto. Né nelle cose e nemmeno nel mio pensiero. Certo, avevo capito da un pezzo che il mio presente mi era sfuggito.

  • La Cosa, che aspettava, si è svegliata, mi si è sciolta addosso, cola dentro di me, ne son pieno... Non è niente: la Cosa sono io. L'esistenza liberata, svincolata, refluisce in me. Esisto.

    Esisto. È dolce. Dolcissimo. Ho la bocca piena d'acqua spumosa. L'inghiotto, mi scivola in gola, mi carezza, ed ecco che mi rinasce in bocca: nella bocca mi rimane di continuo una piccola pozza d'acqua biancastra, discreta, che mi sfiora la lingua. E questa pozza sono ancora io. E la lingua. E la gola, sono io.

    Vedo la mia mano che si schiude sul tavolo. Essa vive – sono io. Si apre, le dita si spiegano e si tendono. È posata sul dorso. Mi mostra il suo ventre grasso. Sembra una bestia rovesciata. Le dita sono le zampe. Mi diverto a muoverle, in fretta come le zampe di d'un granchio caduto sul dorso. Il granchio è morto, le zampe si rattrappiscono, si richiudono sul ventre della mia mano. Vedo le unghie – la sola cosa di me non viva. E ancora. La mia mano si rivolta, si stende pancia a terra, adesso mi presenta il dorso. Un dorso argentato, un po' brillante – sembrerebbe un pesce, se non avesse dei peli rossi al principio delle falangi. Sento la mia mano. Sono io, queste due bestie che s'agitano all'estremità delle mie braccia. La mia mano si gratta una zampa con l'unghia d'un'altra zampa: sento il suo peso sul tavolo, che non sono io. Continua, continua quest'impressione del peso, non passa mai. Non c'è ragione perchè passi. Alla lunga è intollerabile... Ritiro la mano, me la metto in tasca. Ma subito, attraverso la stoffa, sento il calore della coscia. Ritraggo subito la mano di tasca e la lascio penzolare contro lo schienale della sedia. Adesso ne sento il peso in cima al braccio. Pesa un po', appena appena, mollemente, midollosamente esiste. Non insisto più: dovunque la metta, continuerà ad esistere ed io continuerò a sentire che esiste; non posso sopprimerla, come non posso sopprimere il resto del mio corpo, il calore umido che m'insudicia la camicia, né tutto questo grasso caldo che si muove pigramente come se lo si rimescolasse col cucchiaio, né tutte le sensazioni che circolano lì dentro, che vanno e vengono, che salgono dal fianco all'ascella, oppure vegetano tranquillamente, dal mattino alla sera, nel loro angolo abituale.

    Mi alzo di scatto: se soltanto potessi smettere di pensare, andrebbe già meglio. I pensieri, non c'è niente di più insipido. Ancora più insipido della carne. Si trascinano a non finire e lasciano un gusto strano. E poi ci sono le parole, dentro i pensieri, le parole incompiute, le frasi abbozzate che ritornano sempre [...]

  • Quattro righe su un foglio bianco, una macchia di sangue, ecco un bel ricordo.

  • When the mellow moon begins to beam

    Every night I dream a little dream

  • Niente. Esistito.

  • Nel cerchio si trascina una mosca intorpidita, si riscalda, e si strofina le zampe davanti l'una contro l'altra. Le renderò il servigio di schiacciarla.

  • Si sentono a loro agio, guardano con fiducia i muri gialli, la gente, trovano che il mondo è bello così com'è, proprio così com'è, e ciascuno dei due, provvisoriamente, attinge il senso della propria vita in quella dell'altro. Fra poco, quei due non faranno più che una vita sola, una vita lenta e tiepida che non avrà più alcun senso – ma loro non se ne accorgeranno.

  • Quando saranno andati a letto insieme dovranno trovare qualche altra cosa per velare l'enorme assurdità della loro esistenza. E tuttavia... è proprio necessario mentire a se stessi?

  • “Penso,” gli dico ridendo, “che siamo tutti qui a bere e a mangiare per conservare la nostra preziosa esistenza, e che non c'è niente, niente, nessuna ragione di esistere.

  • Di colpo il viso dell'Autodidatta si trasforma: si direbbe che ha fiutato il nemico, non gli avevo mai visto quest'espressione. Tra noi è morto qualcosa.

  • Lo so che cosa dissimula questo ingannevole sforzo di conciliazione. In fondo, mi chiede così poco: semplicemente di accettare un'etichetta. Ma è una trappola: se acconsento l'Autodidatta trionfa, sarei subito aggirato, ripreso e sorpassato, poiché l'umanitarismo raccoglie e fonde insieme tutti gli atteggiamenti umani. Se lo si contrasta, si fa il suo giuoco, poiché vive dei suoi contrari.

  • È dunque questa, la Nausea: quest'accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa.

  • Vorrei tanto lasciarmi andare, dimenticarmi, dormire. Ma non posso, soffoco: l'esistenza mi penetra da tutte le parti, dagli occhi, dal naso, dalla bocca...

    E d'un tratto, d'un sol tratto, il velo si squarcia, ho compreso, ho visto.

  • La Nausea non mi ha lasciato e non credo che mi lascerà tanto presto; ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso.

  • Il tempo s'era fermato: una piccola pozza nera ai miei piedi; era impossibile che venisse qualcosa dopo quel momento lì.

  • Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione.

  • Eccoci dunque tornati a quelle discussioni alessandriniche che bisognava sostenere in altri tempi, quando avevo in cuore voglie semplici e volgari, come dirle che l'amavo, di prenderla tra le braccia. Oggi non ne ho alcuna voglia.

  • Non c'è stato giorno in cui non abbia pensato a te. E mi ricordavo distintamente anche il più piccolo particolare della tua persona.

  • - Ma sì, sono cambiata, - dice seccamente, - sono cambiata completamente. Non sono più la stessa persona. Pensavo che te ne saresti accorto alla prima occhiata.

  • Appena avessi pronunciato una parola, fatto un gesto, tirato il respiro, ti saresti messa ad aggrottare le sopracciglia ed io mi sarei sentito colpevole senza sapere il perché. Poi, di minuto in minuto, avrei accumulato gli sbagli, mi sarei sprofondato nella mia colpa...

  • - Non sono affatto triste. Me ne sono meravigliata spesso, ma avevo torto: perché dovrei esser triste? In altri tempi sono stata capace di bellissime passioni. Ho odiato appassionatamente mia madre. E d'altra parte, a te, - dice in tono di sfida – t'ho appassionatamente amato.

    [...] - Lo so. So che incontrerò mai più niente e nessuno che m'ispiri della passione. Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un'impresa. Bisogna avere un'energia, una generosità, un accecamento... c'è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio: se si riflette non lo si fa. Io so che non salterò mai più.

  • - Ti sei meritato tutto quello che ti è accaduto, eri molto colpevole; m'irritavi con quella tua aria solida. Sembrava che dicessi: sono normale, io; e t'applicavi a spirare sanità, trasudavi sanità morale.

  • Non bastava non notare la mia sofferenza: bisognava non soffrire.

  • Avevamo perduto le stesse illusioni, avevamo percorso gli stessi cammini.

  • Naturalmente non ci sono che io, io che odio, io che amo. E allora questo io è sempre la stessa cosa, una pasta che s'allunga, s'allunga... e si rassomiglia talmente che ci si domanda come la gente abbia avuto l'idea di inventare nomi, fare distinzioni.

  • Tutto quello che m'hai raccontato tu ero venuto a raccontartelo io; con altre parole, è vero. Ma ci incontriamo all'arrivo. Non so dirti come questo mi faccia piacere.

  • Io non sono come te, mi dispiace piuttosto di sapere che qualcuno ha pensato le stesse cose che ho pensato io.

  • Prenderla tra le braccia... a che pro? Non posso niente per lei. È sola come me.

  • Ho la penosa impressione che non abbiamo più nulla da dirci. Ancora ieri avevo tante domande da porle: dove era stata, che cosa aveva fatto, chi aveva incontrato. Ma tutto ciò mi interessa solo nel caso che Anny vi si fosse data con tutto l'entusiasmo. Ora sono senza curiosità.

  • Non sono soltanto costernato di lasciarla; ho un'orribile paura di tornare alla mia solitudine.

  • - Allora devo proprio lasciarti dopo averti ritrovata.

  • Ma ancora non era trascorso nulla, poiché lei era ancora lì, poiché era ancora possibile rivederla, convincerla, portarla con me per sempre. Ancora non mi sentivo solo.

  • Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere, tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più immaginarne altre. Sono ancora abbastanza giovane, ho ancora abbastanza forza per ricominciare.

  • Sono solo in questa strada bianca fiancheggiata da giardini. Solo e libero. Ma questa libertà assomiglia un poco alla morte.

  • [...] mi sopravviverò. Mangiare, dormire. Dormire mangiare. Esistere, lentamente, dolcemente, come questi alberi, come una pozza d'acqua, come il sedile rosso del tram.

  • Non mi trascuro, tutt'altro: stamane ho fatto il bagno, mi son fatto la barba. Soltanto, quando ripenso a tutti questi piccoli atti solleciti non capisco come abbia potuto farli: sono così vani. Sono le abitudini, senza dubbio, che li hanno compiuti per me. Non sono morte, loro, continuano a darsi da fare, a tessere pian piano, insidiosamente, le loro trame, mi lavano, mi asciugano, mi vestono, come balie.

  • Non ho ancora lasciato Bouville e già non ci sono più. Bouville tace. Trovo strano che mi tocchi di rimanere ancora due ore in questa città che, senza più curarsi di me, riordina i suoi mobili e li ricopre con le fodere per poterli scoprire in tutta la loro freschezza, questa sera, domani, a nuovi venuti. Mi sento più dimenticato che mai.

  • Adesso, quando dico “io”, mi sembra una cosa vuota. Non arrivo più a sentir me stesso troppo bene, tanto mi sento dimenticato. Tutto quanto resta di reale in me è dell'esistenza che si sente esistere.

  • Coscienza obliata, abbandonata tra questi muri, sotto il cielo grigio. Ed ecco il senso della sua esistenza: è che è coscienza di essere di troppo. Si diluisce, si sparpaglia, cerca di perdersi sul muro bruno, lungo il fanale, oppure laggiù, nella bruma della sera. Ma non dimentica mai se stessa; è coscienza d'essere una coscienza che s'oblia.

  • E dire che vi sono degli imbecilli che attingono consolazioni nelle arti!

  • Quattro note di sassofono. Vanno e vengono e sembra che dicano: “Bisogna fare come noi, soffrire a tempo”. Ebbene, sì! Naturalmente, vorrei ben soffrire a questo modo, a tempo, senza indulgenza, senza pietà per me stesso, con un'arida purezza.

  • E anch'io ho voluto essere. Anzi non ho voluto che questo; questo è il vero significato della storia.

  • Some of these days

    You'll miss me honey.

  • [...] quel giorno a quell'ora è cominciato tutto. E arriverei – al passato, soltanto al passato – ad accettare me stesso.

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